L’Unione europea non è un prodotto definitivo, ma in costante evoluzione. E si può ripartire dalle città.

Marco Lombardo è Assessore con deleghe alle Relazioni europee e internazionali e alla cooperazione internazionale per il Comune di Bologna. Ha accettato gentilmente di incontrarci per un’intervista sullo stato dell’UE: 26 anni dopo Maastricht, il progetto europeo incontra sempre più difficoltà, come testimonia il crescente sentimento euroscettico ampiamente diffuso nel vecchio continente.

Dall’Europa della libera circolazione e del libero mercato all’Europa dei muri e del filo spinato, delle banche e della finanza: si è davvero esaurita la spinta propulsiva del sogno di Ventotene?

In un momento di grande incertezza su quello che sarà il futuro dell’Unione, assume un’importanza fondamentale stimolare un dibattito critico a tutti i livelli, nel tentativo di individuare le possibili soluzioni a una crisi che, ad oggi, sembra sempre più difficile lasciarsi alle spalle.

Assessore, vogliamo cominciare la nostra intervista da una sua affermazione: “Questa Europa non è più l’Europa del sogno dei padri fondatori: rischia di sgretolarsi sulle divisioni e sugli egoismi degli interessi nazionali degli stati membri”. In cosa si diversifica l’Europa di oggi rispetto al progetto iniziale? 

Innanzitutto, è opportuno fare una precisazione: quando parliamo di UE ci riferiamo al processo di integrazione europea, non a un prodotto definitivo. Questo significa che siamo di fronte a una costante evoluzione, in cui le conquiste del passato possono continuamente essere messe in discussione, e sta a noi difendere quanto di positivo è stato realizzato. Per capire cosa non funziona, faccio riferimento al preambolo del Trattato, in cui vi è scritto che compito principale è unire stati e popoli; l’UE si è occupata in misura maggiore dei primi, non attribuendo la dovuta importanza al processo di costruzione dell’identità europea dei cittadini. In seguito alla Brexit e all’avanzata dei partiti euroscettici, la discussione non può rimanere incentrata solamente sulla dimensione finanziaria. Ci sono tre sfide in particolare che devono essere affrontate a livello europeo: politica, culturale ed educativa.

In merito alla prima, non ci può essere un rilancio nel processo di integrazione europea se Stati ed enti territoriali non si uniscono davvero per affrontare le sfide. La prospettiva deve essere quella di una vera unione politica; dal mio punto di vista non esiste un’unione monetaria senza un governo europeo dell’economia, come non esiste un sistema che non abbia politiche europee anche in materia di pilastro sociale, su lavoro, welfare, armonizzazione fiscale: le politiche devono essere decise col metodo comunitario a maggioranza in tutti gli ambiti dell’UE, altrimenti si crea inevitabilmente una situazione di disparità tra gli stati. Per capire questo concetto, pensate a una delle bellezze architettoniche dell’antichità greca, il Partenone: perché è riuscito a sopravvivere a terremoti e crisi finanziarie? Perché la struttura si basa su delle regole armoniche universali, che permettono al peso di essere scaricato in maniera uguale sulle colonne, adeguatamente poste alla stessa distanza l’una dall’altra e tutte con la stessa funzione e di fatto la stessa dignità. A Maastricht si è costruita l’UE con un pilastro comunitario che riguardava solo l’economia, e due pilastri intergovernativi su politica estera e cooperazione giudiziaria. In questo modo si è creata una struttura in cui il peso viene scaricato sui pilastri più deboli: se l’UE avesse preso a riferimento strutturale, e non solo simbolico, il tempio greco, forse oggi ci troveremmo in una situazione diversa.

La seconda sfida riguarda la dimensione culturale. Se parliamo di politiche europee, non stiamo parlando di politica estera: questo deve essere chiaro a politici, giornalisti e cittadini. Oggi il 70% della normativa nazionale non è altro che trasposizione di obblighi sanciti a livello europeo; il problema è che troppo spesso i politici italiani si prendono i meriti se dall’UE arrivano provvedimenti favorevoli, mentre sono i primi ad addossare la responsabilità all’Europa per i limiti che vengono posti. Ma ciò che viene deciso in Europa lo decidiamo noi, non soggetti terzi. Questo è molto importante, perché non può esserci un’altra prospettiva se non quella di una sovranità esercitata a livello europeo: è impensabile esercitare la sovranità su tematiche come i cambiamenti climatici a livello nazionale. Ovviamente, anche i giornali hanno una responsabilità nel dibattito: se per sapere di cosa si discute al Parlamento europeo devo consultare la terza pagina degli esteri, la percezione della presunta distanza tra politica interna ed europea aumenta.

Infine, la sfida sul piano educativo: è fondamentale che le istituzioni riescano a comunicare il valore della cittadinanza europea. Ciò significa insegnare educazione civica europea, fare comprendere diritti e doveri della Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei, e contribuire a ricostituire quel senso di identità e di appartenenza che lega i cittadini europei a un comune destino. Unione nella diversità e rispetto dei diritti umani sono valori che fanno parte della nostra storia e devono costituire il senso delle nostre azioni future. La crisi dell’UE, più che una crisi economica, è una crisi di senso: l’unione ha funzionato in quanto processo di pacificazione, ma ora che aumenta il rischio di conflitti al proprio interno e lungo i suoi confini, l’Europa ha perso la sua missione nel mondo. La mia generazione ha visto il crollo del Muro di Berlino, quando oggi nei confini degli stati europei si alzano quegli stessi muri che l’Europa era riuscita ad abbattere. La politica sui flussi migratori si inserisce pienamente in questa profonda perdita di significato: il Mediterraneo è diventato il cimitero in cui finiscono le speranze di un mondo migliore, riuscire a comprenderlo significherebbe un primo passo verso una nuova coscienza.

Quindi da dove si riparte?

Io ritengo che si debba ripartire dalle città: l’80% dei cittadini europei vive nelle città, e in attesa che gli stati capiscano come rilanciare il processo di integrazione la spinta può provenire dall’ente territoriale più vicino ai cittadini. L’Agenda Urbana Europea, istituita dal Patto di Amsterdam, parte dal presupposto che i problemi che affrontano le città europee siano i medesimi, e che solo la collaborazione a diversi livelli di governo, a partire proprio dalle città, porti a vincere le grandi sfide di oggi. Inoltre, le città possono potenziare le proprie relazioni internazionali. Bologna è una città che ha sempre avuto una vocazione internazionale: l’Erasmus è nato qui, abbiamo avuto due sindaci vicepresidenti del Parlamento europeo (Guido Fanti, Renzo Imbeni) e un cittadino illustre come Romano Prodi presidente della Commissione. Se Bologna vuole mantenere viva questa tradizione europeista, deve costruire e mantenere reti assieme alle altre città orientate alla cooperazione territoriale. La nostra amministrazione ha incontrato sindaci di altre città europee, ambasciatori e consoli internazionali, al fine di stringere accordi di cooperazione per costruire una visione incentrata sulle persone e i loro diritti, sull’integrazione, la sostenibilità e in generale tutte le tematiche che meritano di essere affrontate in un’ottica di collaborazione. Inoltre, dobbiamo riuscire a sviluppare e incrementare la dimensione identitaria della partecipazione: la nostra città si è mossa molto bene in questo percorso, come testimonia il premio “Engaged Cities” che il sindaco ha ritirato a New York. Solamente incontrando le persone, informandole e facendole partecipare si riesce a rendere una città aperta, attrattiva e inclusiva, e in grado di fronteggiare le sfide del nostro tempo.

Da quanto ha sostenuto finora, se c’è qualcosa che non va nell’Unione Europea lo si deve imputare principalmente alle istituzioni e alla politica. D’altra parte, secondo me una parte sempre più larga dei cittadini ha voglia di interessarsi e partecipare ma in merito a temi più vicini alla vita quotidiana, mentre su questioni come politiche europee e politica estera, percepite più lontane, ritengo ci sia una pressoché totale mancanza di informazione. Il che è paradossale, considerando la quantità di fonti informative di cui disponiamo oggi…

La classe dirigente è sempre lo specchio fedele della base, comprende i suoi vizi e le sue virtù. Da parte loro, i cittadini sono i fruitori dei contenuti che vengono immessi nel dibattito. Vi faccio un esempio: se in radio si ascolta sempre musica Pop, l’unica possibilità per i cittadini è ascoltare musica Pop. L’Europa che viene narrata oggi, quella dei mercati e che abbandona i profughi, non può incitare un senso di appartenenza, perché il dibattito politico si concentra esclusivamente sulle mancanze e i problemi del sistema. Ovviamente, il singolo può cercare di informarsi su internet, ma sul web e i social network spesso è difficile riuscire a distinguere tra chi sostiene posizioni diverse. E diventa ancora più difficile se chi cerca di reperire informazioni non possiede le conoscenze di base per orientarsi. Un sistema scolastico in cui la storia viene insegnata fino al 1945 è abbastanza emblematico da questo punto di vista: come fanno i ragazzi a sapere cosa è l’UE se non hanno potuto nemmeno studiarla a scuola? Stesso discorso vale per l’educazione civica, disciplina su cui noi come amministrazione abbiamo deciso di puntare organizzando dei corsi gratuiti di educazione civica europea nelle piazze, nelle scuole e nelle biblioteche per tutti. Perché effettivamente i cittadini si interessino e partecipino, hanno bisogno di essere informati e messi a conoscenza dei loro diritti e doveri dalle istituzioni, In primo luogo, perché se non sai quali sono i tuoi diritti, non sei un cittadino ma un suddito; in secondo luogo, perché se sai che i tuoi diritti sono frutto di una conquista difficile ma nessuno garantisce che ci siano in futuro, devi lottare per difenderli. Io credo che oggi ci sia una grande voglia di impegnarsi e partecipare, lo testimonia il numero sempre maggiore di persone iscritti ad enti, associazioni del terzo settore ecc. Lo spazio per provare a riscoprire e ricostruire un sentimento di appartenenza c’è. Le istituzioni devono insistere su questo aspetto perché la protezione dei diritti può essere garantita unicamente in una dimensione europea, la sovranità e l’esercizio consapevole della sovranità nazionale, ivi compresa la difesa e la tutela degli interessi del nostro Paese, può avvenire in una dimensione sovranazionale, dove si giocano le partite che contano davvero sui temi come l’economia globale, la competizione finanziaria, il cambiamento climatico, la gestione dei flussi migratori, che uno stato nazionale non è in grado di controllare.

Gli autori

Francesca Neyroz e Alberto Pedrielli sono parte del Bologna Office di Making Europe Again.