Probabilmente per la mia tendenza ad essere un ciuco pervicace, parlando con un amico di Europa mi è stato chiesto di descrivere cosa secondo me non fosse europeo.

È stata una buona strategia, lo ammetto ed ora mi ritrovo a sentire la necessità di riversare liberamente su di voi tutta quella sequela di lamentele, rimproveri, accuse, obiezioni e sproloqui che mi sono balenati in mente alla sola idea di poter infine aggiungere qualche polemica in più al mondo.

Naturalmente non sono previsti intervalli, ma nel caso vi troviate in difficoltà ricordate che l’uso che si fa della carta è arbitrario.

Penso che la prima cosa più non europea che conosca sia considerare l’Unione Europea come un concetto statico piuttosto che dinamico. È un principio che osservo da sempre insinuarsi sia tra i denigratori che tra i fautori dell’Unione. L’Europa che dev’essere unita. L’Europa come sogno, come idea. L’Europa cosmopolita, l’Europa della Champions League.  L’Europa che è lì immobile che incombe su di noi, giudicandoci e bacchettandoci. L’Europa che si deve preservare, l’Europa conservatrice, chi è dentro e chi è fuori dall’Europa. L’Europa come giustificazione, come le mezze stagioni alla macchinetta del caffè, come alibi. L’Europa del “mah, che io sappia no”.

Credo invece che tra i grandi che per primi immaginarono l’Europa in un’Unione circolasse, tra i pochi più saggi e con gli occhiali giusti naturalmente, l’idea di un’Europa epidemica. Un germe posato qui, sì, qui, al centro del mondo, affinché poi si aggrovigliasse però ben oltre il filo spinato al confine ungherese, ben oltre l’aggettivo stesso di “ungherese”, aprendosi  al mondo intero. Ecco, un’Europa dinamica così.

Sicuramente il dinamismo ricercato è oggi un po’ strozzato, sai, da edera verde universale delle peggiori canzoni hippie anni ’60 a geranietto smorto sul balcone all’ombra, di acqua sotto i ponti certamente non ne è passata. Però siamo ancora in tempo per fare un salto all’Ikea! Sono quindi dell’idea che per salvare l’Europa si debba innanzitutto immaginarla come potenzialmente attiva, viva ed energica, per quanto tutte le mattine ce la ritroviamo di fianco addormentata mentre russa. Soprattutto, però, bisogna credere in lei e nell’immenso potere di cambiare il mondo che avrebbe se tutti la sostenessimo.

“E perché dovrei sostenerla? Lei pensa a me? Staremmo meglio per conto nostro!”

La seconda cosa più non europea che conosca è non andare alle riunioni di condominio. Spero che vi dimentichiate la delega e che vi cambino serratura a sorpresa il giorno del trasloco.

La riunione di condominio, come ogni banale pezzo comico sa, è quella riunione in cui Noi, eroici stressati vessati dall’incombenza, paladini della lamentela, siamo costretti, ineluttabilmente, inevitabilmente, improcrastinabilmente costretti a parlare con Loro. E questa è l’Unione Europa.

Purtroppo è così, a nessuno piace la riunione di condominio, ma non accettarla non vi porterà ad altro che all’ennesimo cambio di chiavi, il giorno del trasloco. Siamo una razza maledetta noi umani, dotati di desideri infiniti, ma costretti a mediazioni con la signora del barboncino del terzo piano. Questa però non sia una giustificazione! Non accettare il nostro destino non è semplicemente deleterio, ma imbarazzantemente stupido. E per questo non è per niente europeo negare il dialogo ai vicini solo per il gusto di potersi lamentare poi di egoistici desideri che mai si esaudiranno. Il compromesso è necessario ed ineludibile e si chiama amministratore di condominio, nascondete i portafogli.

La terza cosa più non europea che conosca è accorgersi della cultura. La cultura non è un inaspettato temporale la mattina del picnic, “proprio quando il meteo dava sereno, piove! Governo ladro!”. La cultura è stata, è e sempre sarà. Solo gli zotici se ne accorgono. Ecco perché è importante, piuttosto che subirla passivamente, provare a viverla fin da subito. Come? Cercando già da bambini quell’aspetto che più ci colpisce del caleidoscopio della cultura umana: quel disegno, quel motivetto (te lo ricordi?), quella battuta, quel libro, quella corsa, quella rivalità storica, quel film (ma non era Michael Keaton?). E dopo aver trovato quell’aspetto (l’uomo sa istintivamente trovare), bisogna coltivarlo per farne magari nascere una passione. E poi però bisogna soffrire. La cultura deve essere sofferta, altrimenti rimarrete solo animaletti curiosi. Il pressappochismo è così antieuropeo… Diciamo che, in linea di massima, solamente dopo la quarta volta che avrete rivisto il Tannhäuser sottotitolato in bulgaro potrete prendervi una pausa, ma  con cilicio e ceci ardenti (“La kultura, ciacia cia, poi ti kura, ciacia cia, con premura, ciacia cia!”). E poi? Dopo aver goduto e sofferto? Può bastare? Ovviamente no, perché i migliori tra i nostri antenati non si fermavano mai. Non si può pensare ad una cultura statica… La negazione per una materia e il monotalento non esistono, sono semplicemente un fraintendimento della pigrizia. Oggi però in pochi ricordano come agivano i nostri antenati, i padri indiretti dell’Unione Europea: tutti gli scienziati curiosi, gli artisti bizzarri ed eccentrici, i musicisti instancabili, i filosofi stravaganti che hanno gettato il germe della cultura europea e che hanno ispirato il mondo. Inutile citarli, sono talmente tanti che se ne menzionassi qualcuno mi rimproverereste perfino voi di aver dimenticato gli altri. Eppure in pochi li imitano. Sempre per colpa della staticità: chi può fare meglio di questi geni inarrivabili? Non è europeo dimenticare i buoni esempi e soprattutto non è europeo non essere mai arroganti e tracotanti, senza mai puntare i piedi per difendere la propria opinione (sempre che sia difendibile).

Diciamo che dimenticare la Storia in generale non è europeo, ma è anche molto impegnativo. Sicuramente dimenticare il bello è un peccato capitale, mentre ricordare per sempre i rancori e gli sgarbi dell’uomo e della Storia è, diciamo, meno europeo. D’altronde l’Unione è nata da Paesi che erano in guerra tra loro da secoli: l’Unione Europea è anche perdono. L’eccessiva memoria di cose non memorabili ostacola il dinamismo ed è quindi per definizione antieuropeo.

Certo è che più si dimentica, più si dovrebbe essere coscienti, per evitare gli errori già commessi in passato (mi scuso per la noia, ma è necessario specificarlo in ogni discorso sull’Europa, dal momento che gli errori commessi sono anch’essi padri dell’Unione Europea). Essere coscienti è dunque un dovere morale che porta alla quarta cosa più non europea che conosca: la superstizione.

Tutti i nostri più grandi antenati hanno strenuamente combattuto la superstizione, cercando di andare contro il senso comune e contro i pregiudizi, che non sono né “pre” né “giudizi”, ma bensì la nuda e cruda ignoranza endemica dell’umanità. Chi combatteva i pregiudizi in passato non godeva purtroppo del sostegno che si ha quando si gioca in squadra, ma aveva dalla sua parte il potere di chi ragiona: di conseguenza prevalse. Oggi in Europa godiamo delle più grandi conoscenze mai possedute dall’umanità, sia in ambito tecnologico che morale che artistico, con la cruciale differenza che abbiamo finalmente la possibilità (forse per la prima volta nella Storia) di giocare tutti in squadra. Ebbene sì, è tanta così la mia stima e fiducia nella cultura europea, sperimentatrice in prima linea di tutto lo scibile ed ispirazione ecumenica. E appunto perché mi è così a cuore, mi accorgo che, pur essendo giunta a vette altissime, essa rischia di disperdersi, per via ancora una volta della superstizione. La superstizione di chi invece di dimostrare le proprie opinioni sceglie di avere fede in ciò che gli si dice, sceglie di seguire la tradizione, sceglie di semplificarsi la vita, di indolcire una pillola la cui amarezza sfugge solo a chi vuole semplicemente far finta che non esista. Questo non è il coraggio che ha sempre contraddistinto l’europeo, che sempre si è posto domande e sempre ha lavorato dinamicamente per trovare risposte che fossero le più comprovate, senza però mai accettarle come unica verità, spinto da insaziabili ed instancabili pretese.

Mentre l’euforia del comizio scema nella mia mente, mi accorgo che in effetti quella che ne esce è una figura di europeo quasi epica, un eroe morale, un modello, un’aspirazione, un’idea. Se è esagerato? Sì, forse in questa maniera vi, mi, ci attribuisco un po’ troppe responsabilità… Però in fondo in fondo credo che sia una descrizione che rispecchia fedelmente quella che è la mia idea di “europeo”, nata appunto dalla sua negazione, in modo da non dimenticare i conflitti che dividono l’anima dalle azioni. Credo che la verità sia però che si debba trascendere il concetto stesso di “europeo” per potersi veramente definire come tale: segue abbastanza facilmente dai ragionamenti fatti che il non europeo è in realtà più un non umano, inconsapevole dei propri simili, della realtà e in generale di qualsiasi cosa lo circondi.

E in questo mio adagiarmi su quest’idea così ben definita, logica e chiaramente fedele alla realtà commetto però l’errore fatale che porta alla caduta di ogni mia credibilità: mi autoconferisco ad honorem l’attributo più non europeo di tutti… L’ideologia.

L’ideologia è la superstizione di chi pensa troppo, una maledizione. Si insinua nella mente di chi ragiona e lo convince pian piano ad irrigidirsi su di un unico ottuso punto di vista, avvelenandolo di indisponenza, cinismo e dolce letale atarassia, fino ad adagiarlo con meschino amore nella culla del nichilismo. È violenta l’ideologia, ma forse è più pericolosa, perché è trasmissibile e può infettare menti non pronte, fino a portarle al delirio: colazione inglese la mattina. Quello è evidentemente il punto di non ritorno.

È chiaro che l’ideologia (ma anche la colazione inglese) è quanto di meno europeo possa esserci, poiché mai si dovrebbe dimenticare il dovere di prendersi in giro. Prendersi sul serio in fondo annoia, se ci pensate bene, sempre meglio considerarsi idioti e poi stupirsi con idee mediocri.

Vorrei tanto poter fingere che questo elenco puntato avesse nella sua conclusione una sorta di climax, un qualche ordine previsto, una meta finale, com’è consono per i migliori trattati, ma in realtà sarebbe soltanto pacchiano camuffarlo con qualcosa di diverso da ciò che è veramente: una sclerosi estemporanea.

Giungo quindi a quelle che sono le micidiali righe finali, quelle in cui il periodo pian piano si confonde, le parole si sdoppiano e ricominciate daccapo. Daccapo. Ricominciate daccapo. Ecco, qui, ora, nel momento in cui vi si sfoca la vista e crollate in maniera indecorosa nel vostro crogiuolo vi lascio, sicuro perlomeno di avere più dignità di voi in questo momento, sperando che non essendo europei abbiate imparato ad esserlo.

Ariele Aldrovandi